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In questo blog In nome del Rock parlerò degli artisti le cui canzoni, le cui emozioni e idee hanno interagito con forme e colori nella mia mente e mi hanno spinta a creare oggetti che portino la loro impronta.

Parlerò inoltre delle mie esperienze musicali, in particolare dei concerti che più mi hanno colpita: questo perché la potenza e la suggestione degli strumenti, la compattezza dei musicisti e l’emozione che trasmettono sono particolarmente coinvolgenti dal vivo.

Tramite la mia interpretazione, i mobili che realizzo rendono tattili e visibili le risonanze musicali sperimentate, in nome del Rock.

Nightvision

Nella mia infanzia risuonano canti e balli kanak della Nuova-Caledonia, poi fra i Beach Boys, Elvis Presley, Simon & Garfunkel, spicca Leonard Cohen. La sua malinconia mi ha segnata e ha arricchito le fantasie, esprimendo quello che a una bambina rimane difficile esteriorizzare.

Dopo arrivano i Doors, i Rolling Stones, il blues, i Pink Floyd e i Velvet Underground. Nello stesso momento sentivo musica classica a casa alla quale, nonostante le lezioni di pianoforte, non mi sono affezionata. La trovo autoreferenziale perché, secondo me, l’espressione dell’interiorità del musicista passa in secondo piano rispetto all’esibizione tecnica. Mi sono riconciliata con il suono del pianoforte ascoltando Nick Cave, con il violino grazie a quello suonato da Warren Ellis nei Dirty Three poi con Nick Cave.

L’essere groupie non è stata una mia esperienza ma queste donne sono parte di un desiderio di emancipazione e di cambio dei cannoni sociali, hanno contribuito con le altre donne spettatrici dei concerti alla diffusione e al successo del rock, come riferito da Keith Richards nella sua autobiografia, Life.

Il rock è espressione legalizzata degli istinti primitivi che potrebbero sfociare nella delinquenza e, come per ogni forma d’arte, del pensiero più innovativo della società.
Più tardi scopro i gruppi indie.
photo: Marco Ortolani Kuemmel

Hugo Race

Hugo Race, musicista australiano, in concerto da solo in una performance a Settignano nel 2015 fu impressionante per come riuscisse, aiutandosi di basi registrate, a suonare con una potenza e a creare un concerto coinvolgente. La sua voce è profonda, soave e incantatrice.

E’ un viaggiatore infaticabile, di una grande umanità e gentilezza, mosso da una curiosità irrefrenabile di conoscere persone e popoli diversi ai quali confrontarsi. E’ particolarmente legato all’Italia dove ha vissuto, creato il gruppo Fatalists in collaborazione con il gruppo i Sacri Cuori, e prodotto l’ultimo disco di Cesare Basile.

photo: Marco Ortolani Kuemmel

Hugo Race

Ho potuto assistere anche a concerti con i suoi gruppi Dirtmusic e Fatalists. I loro brani sono suggestivi e decisi, penso in particolare a We never had control (album Orphans), oppure Nightvision (album Fatalists). L’improvvisazione dal vivo ha arricchito di potenza e atmosfera quest’ultimo brano.

Durante il concerto a San Salvi nel 2016 con i Fatalists si notava la bravura di tutti i musicisti, e l’originalità e fantasia del batterista Diego Sapignoli che usa percussioni particolari sul rullante. C’è stata anche la collaborazione del chitarrista Giovanni Ferrario a cui, per via del look disinvolto, a vederlo prima che iniziassero a suonare ci si chiedeva se avrebbe suonato con il gruppo…- ma appena ha iniziato è stato impressionante per la sua abilità e personalità fuori dal comune.

Non c’è mai nei brani di Hugo Race alcun virtuosismo, desiderio di mostrare bravura, quanto invece desiderio di comunicare idee ed emozioni sentite, e in questo ci riesce benissimo. I suoi brani sono carichi di sentimenti e sensualità, poesia, osservazioni del mondo malinconiche e crude. C’è sia la speranza che la fatica di esistere, riflesse nella natura in particolare, quella potente delle sue origini australiane.

Mi ha colpita molto la descrizione che ha fatto prima di suonare Ballad of easy rider: quando uscì il film Easy rider stava sulla costa australiana, davanti al mare, vicino al deserto battuto dai venti, in solitudine. I suoi testi hanno un’impronta dark, e rivelano un’introspezione fatta con lucidità e mistero. E’ intriso di ritmo blues, suoni essenziali e melodici, cosa che mi piace particolarmente (lo ascolto in loop).
L’album 24 Hours to nowhere trasmette una grande atmosfera, i brani 24 Hours to nowhere e anche No god in the sky sono fra quelli più riusciti secondo me.

I Dirtmusic, di cui predilego l’album Dirtmusic omonimo nonché l’album BKO – il brano Unknowable è ipnotico – è un ritorno alle radici blues, così come lo è nella collaborazione che hanno intrapreso con il gruppo Tamikrest nel Mali.

Il blues, assieme al soul, è stato per me anche uno dei primi approcci al rock -, e da me scoperto in seguito, l’origine stessa del rock. Vederli in concerto a Firenze nell’estate 2018 (San Salvi), pur con solo una parte della band (il ritardo dell’aereo a Berlino aveva impedito ad alcuni di loro di arrivare in tempo per suonare), è stato coinvolgente per la potenza e la compattezza del loro suono.

Non ho potuto purtroppo sentire le altre sue esibizioni con Michelangelo Russo (che fa parte con Race del gruppo australiano True Spirit), è sicuramente un’esperienza da vivere.

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